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Dopo la maturità si viaggia, è un diritto. Lo dice Marco Paolini in Aprile 74-75, uno dei suoi Album, ed è vero. Per almeno un decennio partire, per una bella fetta di popolazione giovanile, significava una cosa sola: interrail. Non ci voleva molto, uno zaino con quattro fesserie, un sacco a pelo, il magico biglietto ferroviario che permetteva infiniti viaggi sui treni di seconda di tutta Europa, e naturalmente tanta voglia di vedere cosa c’era fuori dall’orticello di casa nostra, di conoscere gente nuova, posti nuovi, modi di vita diversi. Era come muovere dalla periferia in cui si era relegati verso il centro vero e pulsante del mondo, verso le piazze più splendide e raggianti delle città e delle capitali, dove la vita si vive sul serio e non scorre soltanto. Dopo la maturità si viaggia, soprattutto per sancire un momento importante, la conquista dell’età adulta, la capacità raggiunta di esplorare i territori limitrofi. Ma naturalmente c’è dell’altro, c’è una forte volontà di confrontarsi con quel resto dell’umanità che ci ignora e che noi ignoriamo, c’è la voglia di sapere se e quanto sono diversi da noi. È la sempiterna compulsione al viaggio, all’andare, che da sempre vive e ruggisce all’interno dell’uomo, e lo spinge a partire, nonostante tutto. Il viaggio – è scritto nel libro – non è una vacanza. Il viaggio è l’opposto della vacanza e quindi deve essere ordinatamente disorganizzato. La vacanza e il viaggio organizzato sono così noiosi. Il bello sta tutto lì, basta averne voglia, basta volerlo, basta partire.

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